Amarci c’affatica

Jennifer Guerra
12 min readAug 5, 2021
Ai Kijima, NEW LOVE PLAN #17, 2012

Mentre siamo comodamente seduti su questo aereo in caduta libera che è la società neoliberista e guardiamo fuori dal finestrino, coprendo le urla dei nostri vicini con le cuffie noise-cancelling, non ci resta altro che pensare a quello che lasceremo dietro di noi. Quando saremo definitivamente precipitati e tra le lamiere cercheranno il nostro telefono per avere un’idea di chi fossimo e perché fossimo su quell’aereo — un po’ come quella sonda mandata sullo spazio con Mozart e Chuck Berry per presentarsi agli alieni — troverebbero Instagram aperto con la schermata di chi, nell’ultimo iato della propria esistenza, controllava chi gli guardasse le stories. Tra le ultime chiamate, il servizio clienti Wind (chiamato controvoglia, ma chi usa ancora il telefono per telefonare nel 2020?) e, forse, la mamma, per chiedere come si smaccchia il dentifricio dal pigiama.

Quando mio nonno usciva con mia nonna, alla fine degli anni Cinquanta, il fratello di lei li seguiva in bicicletta travestito da vecchio, perché rigassero dritto. Ai loro tempi, le relazioni funzionavano così: i più fortunati si vedevano, si sceglievano e s’intendevano tramite un complicato gioco di sguardi e cenni; per tutti gli altri questi incontri erano programmati dalle rispettive famiglie. Ci si osservava, per lunghissimi periodi di tempo, a volte anni, senza necessariamente rivolgersi la parola. Poi i due si cominciavano a frequentare creando complicatissime casualità per cui lui passava di lì proprio quando c’era lei, in presenza di altre persone che vigilassero per poi esprimere un parere più o meno favorevole all’unione. Mio nonno, ad esempio, portava il latte nel cortile dove abitava mia nonna, solo per vederla tutti i giorni, togliersi rispettosamente il cappello e dirle: «Buongiorno Maria», e andare via. Le donne in particolare si affidavano al giudizio delle più esperte che ci erano già passate. Nulla si sapeva di ciò che avveniva nella prima notte di nozze e in quelle successive, nel segreto del letto coniugale, tranne qualcosa che si tramandava attraverso riti antichi e molto nebulosi. Ricevuto l’esplicito benestare di tutti, ci si cominciava a “parlare”: questo dice mia nonna, ancora, quando mi riferisce i pettegolezzi di paese. «Ho sentito che quella lì parla con quello là».

Dopo questa prima fase oratoria, si aveva il permesso di frequentarsi in occasioni più private — fratelli travestiti da vecchi permettendo. Visite a casa a bere il caffè rigorosamente separati dalla suocera, giretti serali, l’occasione adatta di instaurare una confidenza tra i corpi: mani intrecciate, braccia intorno ai fianchi, talvolta qualche bacio e qualche fugace tocco. Poi si attendeva diligentemente il giorno del matrimonio per la benedizione più importante di tutte: quella divina. Solo a quel punto ci si poteva esplorare per la prima volta davvero, se si facevano le cose per bene. Le cose si sono sempre fatte in un modo o nell’altro, ma in questa maniera di costruire le relazioni — che funzionava soprattutto perché l’istituzione del matrimonio era così salda e intoccabile da andare a oscurare completamente incompatibilità di carattere, aspirazioni personali, desideri di emancipazione e, spesso, anche soprusi e violenze — tutto era lasciato al caso o alla manzoniana Provvidenza.

In un certo senso, il mondo delle relazioni affettive era estremamente facile. Era un meccanismo perfettamente oliato e funzionante perché l’amore passionale non doveva essere in alcun modo un ostacolo per la progressione della società: quello era riservato a romanzi o alla sfera extraconiugale. Va però detto che questa facilità valeva solo per alcuni: in linea di massima, i maschi se la cavavano meglio delle femmine. Se si trovavano incastrati in un matrimonio infelice, la società offriva svaghi e passatempi di ogni tipo, che venivano perdonati senza troppi drammi perché gli uomini sono fatti così.

Ai Kijima, NEW LOVE PLAN #7, 2013

Ogni volta che sento qualcuno dire che oggi abbiamo perso il senso dell’amore e delle relazioni, mi arrabbio parecchio. Non è vero che ora ci separa più di frequente perché le persone non sanno più amare. Semplicemente una volta le coppie stavano insieme tutta la vita perché 1) il divorzio, anche se è arrivato nel 1971, era tutt’altro che semplice o socialmente accettato; 2) le donne erano educate ad annullare i propri desideri e a sopportare praticamente tutto; 3) l’istituzione del matrimonio e della famiglia nucleare sono sempre stati strumenti economici prima ancora che relazionali. Corollario: 4) la sopravvivenza della famiglia e dell’intero sistema economico che da essa dipendeva era garantita dal lavoro domestico non salariato delle donne. Il matrimonio e la monogamia servivano a dare continuità al patrimonio, ad assicurarsi un ricambio manodopera e a mantenere la società salda sui binari della norma.

Oggi questo sistema non funziona più e questo ci ha resi fragili e spaventati dalle relazioni, dalla stabilità emotiva, dall’idea di passare la vita sempre accanto alla stessa persona, da quello che gli inglesi chiamano commitment. Foucault ci ha raccontato nella sua Storia della sessualità che c’è un rapporto molto stretto tra potere repressivo e sesso: la famiglia borghese, istituzione consolidatasi nell’Ottocento nel rafforzamento del capitalismo, ha assicurato la sopravvivenza di questo rapporto, fungendo da organo di controllo per la moralità e l’ordine. Ma oggi la società è esplosa, e con essa la famiglia, suo nucleo originario. E così il nostro vecchio, rassicurante e granitico modo di fare sesso e di relazionarci con l’altro non funziona più.

Da un po’ di anni, le classifiche su quanto sesso facciamo nell’età contemporanea sono sempre più confuse. Il primo a parlarne fu Bustle, nel 2016, poi il New York Times l’anno successivo e infine The Atlantic, che ha dedicato un’intera copertina alla “recessione sessuale” dei giovani. Per un certo periodo, è circolata la notizia che i cosiddetti millenial non facessero più l’amore e la colpa è stata genericamente data al progressivo isolamento sociale causato, si dice, dai social network. La nostra generazione è stata ed è tuttora dipinta come una massa di egomaniaci depressi, che passa la propria vita a fare swipe su Tinder alla ricerca di un nuovo contatto da ghostare, orbitare, a cui fare breadcrumbing o qualche altro neologismo inventato da una rivista americana. Poi è stata la volta del j’accuse alla pornografia, che ci avrebbe resi dipendenti da una sessualità simulata ed eterodiretta, talmente alienante da diventare sostituta del contatto fisico. In realtà la situazione è più complessa di così. I dati citati dai vari articoli che parlano dell’assenza di sesso tra i giovani (americani) si basano infatti su quelli raccolti dal General Social Survey, una sorta di censimento che serve ai politici statunitensi per orientare le campagne elettorali compilando profili di cittadini ideali. Tra le domande c’è anche: “Quante volte hai fatto sesso negli ultimi 12 mesi?”

Ma il problema — se così vogliamo chiamarlo — è che “sesso” è una parola molto riduttiva. Con sesso si intende soltanto il rapporto vaginale penetrativo? Non è un’idea un po’ escludente di tutti quelle pratiche sessuali diverse, sovversive, non binarie ma anche più semplicemente non penetrative che due (o più) persone possono mettere in atto? Il punto forse non è quanto sesso facciamo, ma come lo facciamo, e sicuramente si tratta di un modo diverso non solo da quello dei nostri nonni, ma anche solo dei nostri genitori. Quella rottura del modello di famiglia borghese di cui abbiamo appena parlato ha allargato infinitamente gli orizzonti di possibilità, scardinando l’idea che il sesso debba essere solo e soltanto un pene che entra in una vagina. Il sessuologo Marty Klein, ad esempio, parla di uno sviluppo dell’“intelligenza sessuale”, qualcosa di assimilabile all’intelligenza emotiva.

Se estendiamo questa idea a un livello collettivo, ci accorgeremo che tante cose sono cambiate negli ultimi decenni. Pensiamo soltanto a come l’identità di genere, ovvero quel senso di appartenenza (o non appartenenza) a un genere, abbia trovato molte espressioni che sono sempre esistite, ma che non avevano una definizione. Molte persone non capiscono la portata di questo fenomeno, o addirittura lo vedono con fastidio: perché bisogna trovare a tutti i costi un’etichetta per definirsi? In realtà l’estensione dello spettro dell’identità di genere non è un’etichetta, ma il riconoscimento dell’esistenza di un’alterità. Nessuno impone, neanche alle persone queer o non binarie (cioè che non si riconoscono nell’opposizione uomo/donna), di definirsi per forza, ma è importante che, qualora ne sentano la necessita, trovino un modo per farlo.

Questa nuova intelligenza sessuale non è un discorso astratto e fine a se stesso, ma una realtà che si sta realizzando mentre i boomer sono impegnati a dire che le nuove generazioni non sanno più fare l’amore e vuoi mettere io con le tedesche quando andavo in vacanza a Riccione. La realtà è che i nuovi soggetti sessuali, quelli che maggiormente stanno cambiando le carte in tavola, sono le cosiddette minoranze: donne e persone LGBTQ+ che scoprono o riscoprono una sessualità libera dalle convenzioni e dagli stereotipi.

Una prova di questo grande cambiamento culturale sono gli italiani. Il rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani ci fornisce un’interessante descrizione di come gli italiani siano cambiati dai tempi in cui Pasolini girava Comizi d’amore. Il rapporto viene definito “decomplessato”: si svolgono più frequentemente pratiche sessuali un tempo considerate inaccettabili o disdicevoli, come il sesso anale; si guarda più pornografia; si amplia lo spettro delle attività diverse dal sesso penetrativo. Quello che sorprende leggendo questo rapporto è che è cambiato qualcosa non tanto nella fisicità, quanto più a livello di immaginario. Il dato più sorprendente, e significativo, è questo: “Il sesso senza amore era possibile per il 37,5% delle donne venti anni fa, oggi lo è per il 77,4%”.

Se infatti la famiglia nucleare e la monogamia escludevano nei fatti l’amore passionale, la sua riproposizione è stata fondamentale per assicurarsi la sottomissione della donna, almeno in tempi recenti. La dimensione dell’amore romantico è sempre stata associata al genere femminile, generalmente ascritto all’irrazionalità e alla passionalità. Come fa notare bell hooks nel suo bellissimo saggio Tutto sull’amore, la trattazione dell’amore nell’arte si è divisa a metà: per gli uomini è un argomento filosofico e teorico, ed è per questo che i grandi romanzi d’amore scritti dagli uomini, come Anna Karenina, sono considerati dei capolavori degni dell’attenzione accademica; per le narrazioni delle donne, invece, l’amore è solo evasione e fantasticheria. Per questo un romanzo come Orgoglio e pregiudizio è considerato un romanzo “da femmine”, sebbene la trattazione teorica dell’amore sia ben presente. Ma anche spostandosi dal campo della cosiddetta “letteratura alta”, basta pensare a quanto siano bistrattati i romanzi rosa o le rom-com, considerati a prescindere privi di qualsiasi profondità.

Tornando al nostro dato del rapporto Cenis-Bayer, la conclusione a cui possiamo giungere non è tanto quella che le donne hanno separato il sesso dall’amore, quanto più che hanno separato il sesso dalla sfera matrimoniale. L’illusione romantica imposta alle donne si nutre infatti di miti come quelli dell’eterosessualità obbligatoria e della verginità perpetua, per cui la dimensione sessuale va esercitata solo nel contesto normale e normato del matrimonio. Come si è detto, nessuna deviazione da questa norma è permessa, almeno alle donne. Fino in tempi non troppo lontani (e ancora oggi è frequente sentire discorsi del genere), la prostituzione era considerata “necessaria” al funzionamento e al mantenimento dell’istituzione matrimoniale.

Se dal punto di vista sessuale stiamo assistendo a una fioritura senza precedenti, è dal punto di vista relazionale ed emotivo che le cose non vanno molto bene. Non ci sono statistiche per dimostrarlo, o comunque quelle che esistono (basate su matrimoni e divorzi) sono poco utili al discorso che abbiamo portato avanti finora. Però possiamo farci un’idea di come vanno le cose ascoltando i racconti dei nostri amici, o anche prendendo in considerazione le nostre stesse vite private. E la conclusione è che moltissime persone sono spaventate dall’idea di una relazione.

Sono abbastanza convinta che il motivo per cui tante persone sono terrorizzate dall’idea di passare il resto della propria vita con altre persone è che la nostra società ci lancia due messaggi contrastanti: il primo è che dobbiamo trovare qualcuno a tutti i costi, l’altra metà della mela, qualcuno che ci completi. Il secondo, l’esatto opposto, è che è meglio stare soli.

La ragione per cui ci vengono mandati due messaggi così incoerenti è che l’idea per cui è indispensabile trovare qualcuno con cui stare idealmente per sempre è un retaggio di quel sistema ancora basato sulla matrice della famiglia nucleare e della coppia monogama. Ma oggi questo modello, come abbiamo visto, è in crisi. La crisi non sta solo nell’erosione della società, ma anche nel cambio di paradigma del modello produttivo. Se il capitalismo ha prosperato finora grazie al lavoro salariato del proletariato e al lavoro domestico non retribuito delle donne, ora il post-capitalismo si è trasformato in qualcos’altro, basato soprattutto sulla competizione individuale. I soldi stanno in quella che una volta era considerata economia improduttiva, cioè nella finanza. L’ideologia individualista del neoliberismo è la base teorica di questo tipo di capitalismo predatorio. Anche se non si può negare che il proletariato svolga ancora una funzione imprescindibile in questo sistema economico, la cosa che lo differenzia da quello di cinquanta anni fa è che ora anche il proletariato si è imbevuto del mito della competizione. Pensiamo a quello che fanno molte aziende e multinazionali per incentivare la produttività dei propri dipendenti: istituiscono premi, classifiche, punteggi e ricompense per chi fa di più.

Ai Jijima, NEW LOVE PLAN #19, 2013

Questa ideologia individualista ha reso comuni tanti gesti che ci rendono sempre più difficile trovare la comunione sincera con l’altro. Uno di questi, di cui parla anche Mark Fisher in Realismo capitalista, è quello della quantificazione del sé, cioè la tendenza a dare una misura a tutto quello che accade nella nostra vita. Siamo così abituati a rendere le nostre vite dei progetti, a trattarle come se fossero delle aziende, che l’amore è ormai diventato o un impiccio al feticcio della realizzazione personale, oppure qualcosa che va calcolato, anticipato, previsto. Un fattore come un altro da aggiungere alla nostra realizzazione personale. Questo ci ha resi estremamente scettici nei confronti delle relazioni a lungo termine, che sono molto difficili da “gestire”.

E così “gestiamo” queste relazioni anziché viverle con spontaneità. A volte più che amanti sembriamo dei negoziatori: mettiamo sul tavolo i rispettivi progetti di vita e cerchiamo di trovare dei compromessi. Diamo ultimatum. Minacciamo di esplodere, di farla finita. Calcoliamo al millimetro le nostre mosse, i nostri gesti e le nostre parole. Per farlo, abbiamo lo strumento migliore che potesse capitarci: Internet.

La novità non è certamente che le nostre relazioni nascono su internet, ma che vengono portate avanti da questo formidabile filtro che istituisce una distanza tra noi e l’altro. E il bello che questa distanza la possiamo controllare: visualizzare una storia su Instagram, non rispondere a un messaggio, controllare gli accessi su WhatsApp, mettere un “like tattico”, swipare a destra su Tinder sono delle armi che crediamo infallibili nelle nostre mani. Non solo agiamo in questo modo per “proteggerci”, ma anche perché cerchiamo di prevedere e manipolare le reazioni dell’altro. Sally Rooney nel suo romanzo d’esordio Parlarne tra amici ci ha mostrato quanto il calcolo sia diventato un elemento fondamentale delle nostre relazioni. La protagonista Frances scrive messaggi senza usare le maiuscole perché vuole mostrarsi spontanea, oppure prepara le risposte ai messaggi del suo partner Nick con ore di anticipo, fingendo però di rispondere sempre di getto. Anche Cat Person, racconto celeberrimo pubblicato sul New Yorker nel 2017 da Kristen Roupenian (e che oggi è diventato titolo di una raccolta), illustra in modo perfetto l’incomunicabilità tra persone e il rischio che si corre idealizzandole attraverso lo schermo di un telefono. I due protagonisti, Margot e Robert, non si conoscono su Tinder ma nella vita reale, ma gli inizi della loro storia si sviluppano interamente tramite lunghissime chat.

Spesso il motivo per cui tendiamo a mettere in atto questo tatticismo estremo nelle relazioni è la paura del fallimento. E questa paura è una paura estremamente alimentata dal sistema sociale ed economico in cui viviamo, così fissato con il successo da farne quasi una forma di culto. Pensiamo alle storie ispirazionali che riempiono i media: uomini e donne che si fanno da sé, che trovano la piena realizzazione lavorativa ed economica, magari partendo da una condizione di iniziale difficoltà (che, a dire il vero, non è quasi mai quella della povertà). Il fallimento è il grande tabù del nostro tempo. Sempre secondo il nostro Mark Fisher, il capitalismo ha ormai colonizzato i sogni delle persone. Questo significa che l’ideologia neoliberista del successo e della competizione non è più circoscritta alla sfera professionale, ma a ogni aspetto della nostra vita. Amore e relazioni comprese.

La paura del fallimento ci terrorizza al punto che preferiamo non metterci nemmeno in gioco. Questa paura spesso si trasforma in rassegnazione, o ancora peggio in cinismo: non solo evitiamo le relazioni, ma consideriamo chi le ha falso, debole o una vittima. E se fosse il contrario? Se fosse chi disprezza l’amore a essere il primo schiavo di un sistema che ci preferisce soli, divisi e in competizione tra di noi? Se il capitalismo avesse colonizzato anche i nostri sentimenti, rendendoci scettici nei confronti dell’unione con l’altro?

Insomma, oggi le cose sono molto diverse da quando il fratello di mia nonna la seguiva in bicicletta mentre passeggiava con mio nonno. Se un tempo la coppia eterosessuale, monogama e unita in matrimonio era il fondamento della società, necessaria alla produzione e alla riproduzione, oggi l’impressione è che questo ruolo sia stato assunto dal singolo incattivito che considera l’amore un intralcio alla propria realizzazione personale.

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