Bad (intersectional) feminist

Jennifer Guerra
5 min readMar 5, 2020

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Ho 24 anni, sono femminista da circa 6 ma me ne sento addosso 85. Non solo perché empatizzo con la vecchietta della Women’s March col cartello “I Can’t Believe I Still Have To Protest This Fucking Shit”, ma anche perché mi sembra di essere diventata una di quelle femministe ottuagenarie sprofondate a tal punto nel dibattito da diventare critiche nei confronti del femminismo stesso.

La vecchietta della Women’s March col cartello “I Can’t Believe I Still Have To Protest This Fucking Shit”.

Crescendo, conoscendo più da vicino le dinamiche di oppressione e avvicinandomi con molta calma e ancora molto da scoprire alle teorie marxiste e socialiste, mi sono resa conto che negli ultimi tempi la mia avversione nei confronti del femminismo liberale è diventata più grossa di me. Con femminismo liberale si intende quella corrente del femminismo mainstream che considera la rottura del cosiddetto “soffitto di cristallo” l’obiettivo più urgente della lotta al patriarcato. E fin qui, vabbè pazienza. Non è che deve andare Jennifer Guerra a insegnare alle altre come si fa il femminismo. A me fa venire da vomitare, ma se una è contenta così e così ha trovato il suo modo per liberare se stessa, buon per lei. Non mi piace il femminismo col ditino alzato che ti dice: “Questo va bene e questo no”, quindi è giusto che ognuna faccia come crede. Arrivi a un certo punto in cui ti rassegni all’idea che il concetto di “giustizia sociale” non è né un percorso obbligato né il libretto rosso di Mao. E tu non sei Madre Teresa di Calcutta che deve indicare la via, la verità e la vita.

Però c’è un però.

Ho l’impressione che il livellamento culturale e l’accessibilità offerti da internet — fenomeni che non sono di per sé negativi — abbiano creato una strana sovrapposizione del dibattito che ha certamente contribuito alla mia avversione per un certo tipo di femminismi.

Da qualche anno le aree più a sinistra (ma non solo) del femminismo hanno intrapreso una forte critica nei confronti della corrente liberale, denunciandone la natura separatista, classista e talvolta razzista. Il problema è che queste sacrosante, complesse e motivate critiche sono piovute sul femminismo mainstream come dei macigni, e sono state accolte da frange del movimento che però mancano di una base ideologica sufficientemente solida da reggere l’urto. E un movimento che manca di una base accetta tutto quello che gli passa il convento. Così, anziché intraprendere un lavoro di accettazione, ripensamento e autocritica, il femminismo liberale è riuscito nella mirabile impresa di sussumere quelle stesse critiche e aggiungerle al proprio incerto bagaglio ideologico.

E così, da un giorno all’altro e come per magia, tutte le femministe sono diventate intersezionali.

La parola “intersezionale” è diventata così abusata che, ogni volta che la sento, la mia prima reazione è dubitare della buona fede di chi la utilizza. Il femminismo intersezionale mi sembra diventato il nuovo prezzemolo di questa pasta scotta che è il compasso morale. E il prezzemolo — lo sappiamo tutti noi che ogni anno aderiamo con viva e vibrante gioia all’International I Hate Coriander Day — fa un po’ schifo.

Ti odio, prezzemolo.

Prima di tutto voglio specificare in modo molto chiaro che io nel femminismo intersezionale ci credo ciecamente. Però ho sempre più l’impressione che l’aggettivo “intersezionale” sia diventato il tappeto sotto cui nascondere certi limiti di certi discorsi, la polvere magica da spargere su contenuti spesso vuoti, banali o addirittura in mala fede. Qualcuno potrebbe dire che sto guardando la pagliuzza senza considerare la trave. Ma questo uso sconsiderato dell’intersezionalità si scontra, a mio parere, con due enormi scogli.

Il primo è che il femminismo intersezionale è difficile. Non prendiamoci in giro. Non è facile riconoscere un’oppressione che non ci tocca in prima persona, per quanto ci possiamo sforzare di comprendere ed empatizzare. Questo non significa che sia sbagliato o inutile provarci, ma credo anche che dovremmo essere un po’ più oneste con noi stesse e riconoscere che è molto difficile riuscirci nella maniera in cui ce la raccontiamo. Ho notato che spesso questo affanno verso l’intersezionalità lo compiono donne bianche eterosessuali e cisgender che, nel cercare di percepirsi e rappresentarsi ally finiscono per dire stronzate tipo: “Non sono eterosessuale, sono eteroflessibile” o “Conosco bene la fat acceptance perché prima di mettermi a dieta ero grassa anche io”. Però così il pericolo della feticizzazione delle minoranze della minoranza è dietro l’angolo. L’amica trans sembra essere diventata il nuovo amico gay che ti porta a fare shopping e con cui puoi parlare di sesso. E giustamente a un certo punto queste minoranze sono stufe di vedere i propri spazi perennemente occupati da altri.

Spesso si pensa all’intersezionalità come a una somma di oppressioni. Ci sono le donne, poi c’è la comunità LGBTQ+, poi ci sono i neri, i musulmani e i disabili. E appellandosi a questa parola magica si commette l’errore di pensare che tutte le oppressioni siano uguali ed egualmente esperibili da tutti. Invece questa credenza non è solo falsa, ma manca anche il punto fondamentale: “What’s intersecting it’s not the people, but the oppression” dice una nota sul mio iPhone salvata durante l’ascolto di non so quale podcast (del Guardian forse? Boh, chi lo sa). Quindi io non ci credo quando trattate l’intersezionalità come se fosse la figata del secolo. A me l’idea che sia tutto concatenato e interdipendente mette ansia e basta. Non mi rallegra, non mi fa sentire empowered, non mi dà senso di comunità.

Mi fa sentire di merda.

A volte ho l’impressione che nei femminismi si confonda la causa con la conseguenza e che ci si concentri troppo sulle manifestazioni di un certo problema che sul problema in sé. E quando si parla di intersezionalità questo brutto presentimento accresce. Come dice la misteriosa nota del mio iPhone, l’intersezione sta nelle cause dell’oppressione e non nei suoi esiti, e credo che in molte facciano fatica a riconoscerlo. Perché poi il risultato è sempre lo stesso: appropriazione degli spazi di lotta e di autodeterminazione altrui, e la pretesa che “lottare insieme” sia un obbligo. E così arriviamo alla seconda trave.

Nella maggior parte dei discorsi intersezionali condotti a livello mainstream in cui sono incappata, manca una componente fondamentale, e cioè la classe. Senza considerare il problema di classe, non ha senso parlare di intersezionalità, perché come dice George Costanza “we live in a society”. Se ciò che si sovrappone è l’oppressione, la causa è il sistema eteropatriarcale e capitalista. Ed è lì che deve agire davvero il femminismo intersezionale.

Viviamo proprio in una società.

Quello a cui dovrebbe ambire il femminismo non è tanto la rappresentazione di una certa soggettività marginalizzata all’interno del femminismo o della società nel suo insieme, quanto il sovvertimento di un sistema che ci obbliga a chiedere il permesso per ottenerla. Quindi non basta ricordarsi di aggiungere un asterisco, un + o dire “tutte e tutti” per essere intersezionali, se non si considerano le cause socioeconomiche non solo che hanno causato le divisioni sociali, ma anche i diversi segmenti di lotta.

Tutto il resto è solo appropriazione.

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