Una storia naturale dei miei peli

Jennifer Guerra
7 min readAug 1, 2019

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Artwork by Hark, A Vagrant

Primo ricordo: ho circa 10 anni, faccio il bagno nella vasca di casa mia. Mi insapono le cosce, prima in un senso e poi nell’altro. Mi piace vedere i peli prima lisciati che si arricciano quando scorro contropelo.

Secondo ricordo: ho 13 anni, mancano due giorni alla mia cresima. Piango seduta sul water mentre mia sorella e mia mamma urlano. Hanno in mano una striscia di ceretta.

Terzo ricordo: ho 16 anni, il mio fidanzato mi ha portato fuori a cena per il mio compleanno. È venuto a chiedere il permesso ai miei genitori. Mentre guida mi tocca una gamba: “Vuoi farmi impazzire, così liscia?”.

Ne ho un quarto, ma lo tengo per dopo.

Non so dire con certezza quando siano spuntati i miei peli, né so con certezza quando ho cominciato a odiarli. Mentre scrivo, mi viene in mente un altro ricordo. In piscina, la mamma della mia amica mi sposta un po’ la mutanda del costume. Si vedevano i peli.

Contrariamente al ciclo mestruale, con i peli non riesci a fare pace. Arriva un momento della vita, a un certo punto e non per tutte, in cui capisci che certe cose le hai e basta. Le mestruazioni, appunto, la cellulite, le culotte de cheval. Per quanto ti sforzi per migliorarti, per nascondere l’evidenza, prima o poi impari a conviverci, e a fottertene. Con i peli è diverso: i peli sono brutti, ispidi, fastidiosi, li togli e ti fai male e loro ricrescono senza avere rispetto del tuo dolore. Cerco di farmi piacere i peli in qualsiasi modo. Guardo su Instagram cosa trovo all’hashtag #bodyhair. Bellissime ragazze con qualche pelo sotto l’ascella. C’è anche Sophia Loren. Che bella, penso. Ma anche, grazie al cazzo, è Sophia Loren.

Guardo su Instagram cosa trovo all’hashtag #bodyhair. Bellissime ragazze con qualche pelo sotto l’ascella. C’è anche Sophia Loren. Che bella, penso. Ma anche, grazie al cazzo, è Sophia Loren.

Le provo tutte: comincio con le creme depilatorie. Mi sembra di spalmarmi addosso del pesce marcio. Prima ne uso una vecchissima di mia mamma, ma puzza e brucia e dà fastidio. E poi due giorni dopo sono come prima. Poi ne fanno una spray, che sembra schiuma da barba e ha un odore più gradevole. E questo finché sono sulle gambe. Poi arrivano sulla pancia, una striscia di peli lunghi e neri sull’ombelico. Compro la crema decolorante. Non funziona. I miei peli sono d’acciaio, diventano soltanto un po’ meno scuri, orrendamente grigiastri. Li comincio a togliere, pazientemente, uno a uno con la pinzetta. Ci metto delle ore e mi fa male la schiena perché devo stare tutta curva. Un giorno metto una mia foto su Facebook e qualcuno mi prende in giro per i miei baffi. Allora metto sulla foto dei baffi finti, enormi, da Magnum P.I. “Ecco, contenti?”, ci rido su. Ma i baffi mi perseguitano, mi fanno stare male, mi sembra di essere diventata solo baffi. Quando vado dalla nonna, rubo le sue striscette depilatorie, mi faccio coraggio e strappo, o almeno ci provo. Le metto sui baffi e poi non ho il coraggio di toglierle. Giro per il bagno con la striscia sulla bocca, quando si avvicina la mano mi diventa tutta molle come se i muscoli del braccio si spegnessero di colpo, come in Harry Potter quando per sbaglio Gilderoy Allock gli fa sparire l’osso del braccio. Non voglio farmi del male da sola. Poi col tempo imparo: devi dare un colpo secco, netto, con un po’ di cattiveria, altrimenti è peggio.

Quest’anno, all’età di 23 anni, sono andata per la prima volta dall’estetista. Mi ero sempre rifiutata, accampando scuse — costa troppo, faccio da sola, non ho tempo. La verità è che ho paura. Più che del dolore, che mi dica quelle cose lì che dicono le estetiste. Che mi guardi schifata perché i miei peli sono lunghi, brutti, ispidi, neri e tenaci. Tutti storti, martoriati da anni di lametta, senza alcun rispetto per la pelle. Mi preparo psicologicamente una serie di risposte e giustificazioni: “Sì, ho un problema ormonale”. “Eh, è un po’ che non mi depilo, sai com’è, d’inverno”. “Me li faceva la mamma di una mia amica”. Questo è vero. D’estate, il giorno prima di andare al mare, andavo a casa della mia amica con un rullo di cera e con pazienza, in circa tre ore, sdraiata sul tavolo del terrazzo, toglieva tutto. Una tortura a cui mi sottoponevo una volta l’anno. La verità è che ho paura che l’estetista mi scopra, scopra la mia ignoranza: non so come si mette lo slippino, non so come devo stare. Gamba su o gamba giù? Che cosa si dice all’estetista quando stai a gambe aperte e quando la tua vulva è due centimetri dal suo naso? Di che cosa si parla? Del clima? Del traffico? Sono nervosa. Ho paura che lei mi dica qualcosa. Ho paura che lei me ne chieda conto. Non sono pronta, anche se è da quasi dieci anni che cerco di dare un perché a questi peli.

Ho una spiegazione per tutto, o meglio mi affanno per trovarla. Ma per questi peli no, loro ci sono e basta.

Ho una spiegazione per tutto, o meglio mi affanno per trovarla. Ma per questi peli no, loro ci sono e basta. Riscopro la mia impotenza, sconfitta da questi bulbi piliferi. Nessuna donna della mia famiglia ha i miei stessi peli. Io ho qualcosa di sbagliato, un errore di programmazione, un bug. Cosa ho fatto di male per meritarmi questa coltre di peli anche nei posti dove le donne i peli non li hanno?

Alla fine scelgo la soluzione peggiore, ma più indolore: mi massacro la pelle con la lametta. Lo faccio di nascosto, in lunghissime sessioni nel bagno di casa. Passo i successivi tre giorni a grattarmi, la follicolite mi tormenta e poi punto a capo. I peli sono di nuovo lì, contro ogni mia volontà.

Questo va avanti ben oltre il momento in cui ho cominciato a definirmi femminista. È andato avanti vergognosamente oltre. Il femminismo mi ha insegnato a non imbarazzarmi di essere donna: le mestruazioni? Bellissime. Andare dal ginecologo? Nessun problema. Ma i peli, questi peli lunghi e neri e duri, non li riesco a incastrare nella mia identità. Mi vergogno ad andare al mare, mi vergogno a fare sesso. Non sono mai morbida, non sono mai liscia come al mio compleanno dei 16 anni, e se lo sono è un’illusione che dura una serata. Già il giorno dopo sono lì, a ricordarmi che sono nata sbagliata. Quel liscio è diventato il mio obiettivo irraggiungibile. Quel liscio è la cima del monte, e io sono Sisifo che si trascina il peso di tutti questi peli che nel loro essere minuscoli pesano come un macigno.

“Vuoi farmi impazzire, così liscia?”. No, ti sbagli, caro mio, ti confondi con un’altra. Non sono liscia, non lo sono mai stata. Cerco di pensare se da bambina ero pelosa come quell’altra che quando ero piccola chiamavano “scimmia”. No. È tutto esploso a un certo punto.

Non posso andare avanti con la lametta, la ceretta da sola non la so fare. Mi si rimbambisce il braccio quando devo strappare, come con i baffi. Passo al silk epil, e ogni volta finisco in lacrime. È doloroso, è una tortura, non ce la faccio. Mio papà un giorno mi abbraccia mentre piango: “A me non interessa se hai peli, e non interessa a nessuno”. Il giorno dopo vado al lago con i peli tutti malfatti. Non c’è nessuno se non mio padre che fa la Settimana Enigmistica. Io continuo a spostarmi le mutande del costume, sto attenta a come mi siedo e a come mi muovo, come se avessi gli occhi dell’universo puntati addosso.

Ai peli non ti ci abitui mai. Tu li togli e loro con ostinata ineluttabilità ricrescono, a volte con più forza di prima. Ti ricordano la loro presenza in continuazione. Sono una maledizione, una iattura, un sortilegio.

Ai peli non ti ci abitui mai. Tu li togli e loro con ostinata ineluttabilità ricrescono, a volte con più forza di prima. Ti ricordano la loro presenza in continuazione. Sono una maledizione, una iattura, un sortilegio. Li vedi, li senti, li percepisci crescere. Non puoi farci niente, non dipendono dalla tua volontà: non ci sono diete per i peli, né palestre, né trucchi. Ci sono solo i soldi che devi spendere e il dolore che devi provare se vuoi sbarazzartene, in modo più o meno permanente.

Dei peli ti accorgi quando diventi donna. Per me sono stati il passaggio fondamentale, il momento in cui ho capito che l’infanzia era finita. Niente più pantaloncini corti soprappensiero, niente più gonne. Ora dovevo imparare a convivere con lo sguardo altrui. Devo accettare che passerò il resto della mia vita a essere guardata, giudicata, misurata. Probabilmente accadeva anche prima, ma prima mancava la consapevolezza. Dal momento in cui la mamma della mia amica mi spostò il pezzo sotto del costume, per nascondere la prova della mia ormai sopraggiunta età adulta, il mondo rivolse il suo sguardo giudicante sulle mie gambe, ma soprattutto sul mio pube.

Il mio pube è il centro del mondo, ma le sue attenzioni non sono gradite. Scopro, quando divento donna, che quando si fa sesso il pube è sempre lì, in mezzo. Non è come nei film, che ci si guarda negli occhi e quello che avviene là sotto è invisibile, confuso e censurato. Il pube è esposto, vulnerabile, e il mio è brutto, perché è ricoperto di peli.

Quarto ricordo. “Se qualcuno te la vedesse da vicino, nessuno ti scoperebbe più”.

E allora guardatemela da lontano, col cannocchiale, o non guardatemela proprio. Forse è così perché non vuole farsi guardare dagli stronzi come voi.

Avrei voluto avere la forza di dirlo, ma non ci sono riuscita. Dopo sette anni, ho trovato a malapena la forza di andare dall’estetista. E ogni volta che mi dice: “Totale?”, io dico “No, solo quello che esce dal bikini”, e mi chiedo se mi sta domandando “Totale?” perché pensa che nessuno, se me la vedesse da vicino, mi scoperebbe più.

I miei peli mi hanno fatto scoprire che sono fragile, impotente, a volte irrazionale. Mi hanno mostrato che anche una cosa così minuscola e insignificante può condizionarmi la vita, la vita interiore, quella che non si vede dietro la militanza. Mi hanno ricordato che il corpo per una donna, come diceva Simone de Beauvoir, è sempre altro da sé. Estraneo, sconosciuto, misterioso, ingovernabile. E che a volte ci si deve piegare a questa tirannia del corpo, perché non si può fare altrimenti.

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Jennifer Guerra
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